8.5.16

news...





16.12.15

Dice che Bob Dylan...



da Mucchio Selvaggio n.737 Dicembre 2015

ilmucchio.it

2.10.15

Spiritual...


"SPIRITUAL", il mio racconto, nell'antologia "Andare in cascetta", a cura di Manuel Graziani e Maximiliano Bianchi, in onore del Cassette Store Day!!!

http://www.manwell.it/andare-in-cascetta-nel-numerare-a-mano/http://www.manwell.it/andare-in-cascetta-nel-numerare-a-mano/

#CassetteStoreDay


28.7.15

I love you madly (reading) - 30.7.2015


26.7.15

Roberto Minervini. The Other Side Of America



[da Mucchio Selvaggio n.732/733 Estate 2015]

ilmucchio.it/

8.4.15

Meditare, dormire e sognare (forse) con la musica di Jeff Bridges.




Io odio dormire. Sempre odiato. E anche mio figlio. Per questo ho passato i primi dieci anni della sua vita a raccontargli storie e suonare per non farlo dormire. Per resistere alle tenebre, e illuderci di essere vivi.

“Il mondo è pieno di gente inquieta che ha bisogno di dormire. Per questo ho messo nelle mie Sleeping Tapes suoni intriganti, rumori e altre cosette che ti aiutino a riposare. Distenditi, chiudi gli occhi e addormentati”, spiega Jeff Bridges in apertura del sito psichedelico dreamingwithjeff.com. è qui che si può scaricare in mp3 l’intero nuovo album dell’attore musicista, reso icona planetaria dai fratelli Coen ne Il grande Lebowski, il fricchettone californiano che ha ispirato addirittura il “Dudeism”, il culto pagano che rivendica pace, marijuana e White Russian drink. In puro stile old school si può anche comprare un ghiotto vinile dorato e perfino un’audiocassetta. Il tutto gratis, o con una donazione libera, il cui ricavato è destinato integralmente all’associazione NoKid Hungry che combatte la fame dei bambini in America. [...]

da Mucchio 729, Aprile 2015



16.3.15

La Tigre è libera: C’mon Tigre live a Bologna















C’mon Tigre live a Bologna
TPO, 7.2.14

Dice che questi C’Mon Tigre non si sa nemmeno chi sono, da dove vengono, forse uno da Ancona, l’altro chissà. Forse non sono manco italiani (meglio per loro), o forse no. Fuori c’è la neve, sporca di asfalto e di Bologna, dentro profumo di cannella, zenzero e sgombro affumicato. Bevo un pessimo gin e aspetto sul ciglio della strada per Rabat: quando la chitarra affilata entra sinuosa come un serpente si alza il lamento in lontananza, qualcosa si muove sotto la sabbia. Finalmente un po’ di calore, in questa valle desolata. “Ma chi sono questi? Le Tigre?”, mi chiede una tipa che fuma accanto a me. Tatiana. Faccio di sì con la testa, non mi distrarre cazzo. Ondeggio con la musica, come non mi capitava da anni: Federation Tunisienne De Football è un richiamo alla danza: al centro c’è questo sole che pulsa, e tutto intorno piccoli mondi che si attraggono e respingono. “Non si capisce niente con questo microfono”, fa Tatiana. “È questo il bello”, dico. Al centro del palco due muezzin: chitarra elettrica uno, Farfisa e microfono distorto l’altro, quello con la barbetta. È un invito lento, ancestrale, ossessivo. Per l’occasione i due beduini del deserto post rock hanno chiamato a raccolta una manciata di musicisti da tutto il Mediterraneo, con un carico di sassofoni, trombe, tromboni, vibrafoni e batterie (elettroniche e non). È una famiglia ambulante e mutaforma. Tatiana: “Ma che musica fanno?”. Bevo un sorso di gin schifoso e socchiudo gli occhi su Fan For A Twenty Years Old Human Being e non le rispondo. Trombe come proboscidi di elefanti effervescenti, e batterie elettroniche come cavalcate di gazzelle, e chitarre come lamiere arrugginite al sole. È un ritmo che monta, come l’emozione di un circo antico, con l’equilibrista zoppo che perde il tempo e cade dalla fune, e si rialza, e non sai se l’ha fatto apposta o è caduto per davvero.
Riprendono il tempo, cambiano ritmo, da più veloce a più lento, tutto in levare, ed entrano i fiati, ed è un colpo al cuore. “È tutto così circolare”, dice Tatiana, “ed è questo il bello”. Le faccio cenno di sì con gli occhi a fessura, anche se non l’ho mai vista prima. Vado a farmi un altro giro di pessimo gin, e quando torno sul palco è buio pesto, senza stelle. La luna fa luce sull’artista Danijel Zezelj, genio con coppola in testa e sangue sulle mani: apre la gabbia alla Tigre, che gronda colore acrilico sulla coda di A world of wonder ossessiva e ruggente.

C’mon Ti-gre… C’mon Ti-gre… C’mon Ti-gre…

È sussurrato a due voci, è un lamento, è una fanfara che annuncia a tutti i pellegrini che la tigre è libera, che da oggi è questo l’animale sacro, e non la si può più uccidere. Solo venerare, cullati dal suo andamento modale, quando passa sorniona per strada sotto il suo mantello bianco e nero.

C’mon Ti-gre… C’mon Ti-gre… C’mon Ti-gre…


È l’imprevisto inatteso, è un the con biscotti psichedelici, è tabacco aromatizzato al fuzztonic, è un invito alla danza dell’anima. “È questo il bello”, fa Tatiana, “Ma non mi chiamo Tatiana”. “Ah no?”, dico.
Sul commiato di Malta gli ottoni suonano languidi, e la chitarra vibra e dice che la carovana sta per partire per un lungo viaggio, ma che tornerà, con spezie fresche e odori d’oriente e occidente (mescolati in una lattina di olio di camion esausto). Abbiate cura della Tigre. Alla fine sono tutti felici. Anche io, nonostante il gin.


Foto © Angelica Muzzi


4.2.15

Hitsville, USA


[...] Anche il giovane Berry Gordy Jr. è sempre senza un soldo, ma nel 1959 posa la prima pietra dell’impero Motown con un prestito di 800 dollari: compra una casetta in legno con annesso garage, poi trasformato in studio di registrazione e ribattezzato “Hitsville, USA”, dove sta barricato giorno e notte coi migliori musicisti jazz e blues della città, che fa lavorare sette giorni su sette. È ossessionato dal controllo, ma sa cosa vuole: il successo. È così che si mette a sfornare una serie di hit con gente come Smokey Robinson, Diana Ross, Marvin Gaye, Four Tops, Stevie Wonder e Jackson 5. Sono canzonette pop fatte da neri ma destinate soprattutto al pubblico bianco, le cui vendite complessive superano quelle di Beatles, Stones, Beach Boys ed Elvis messi insieme. Ovviamente tutte suonate per una paga da fame e senza essere mai accreditati, ma quei ragazzi hanno il blues nel sangue, non vogliono lavorare più in fabbrica e accettano di essere in qualche modo sfruttati, diventando la più potente macchina da successi nella storia della musica pop. Chi ha suonato davvero in tutti quei dischi? Da dove veniva il famoso “Motown sound”? E chi erano i Funk Brothers? Nello splendido documentario del 2002 Standing in the Shadow of Motown quei musicisti prodigiosi, ormai anziani, si riuniscono per celebrare la propria musica e raccontare le loro storie straordinarie a oltre 40 anni dalla prima jam a “Hitsville, USA”. “La Motown è un trionfo e una contraddizione. È la prova del potere della black music e un esempio di quanto il successo possa inaridire quando i suoi frutti non vengono condivisi”, scrive Nelson George nel suo tributo Motown. Storia & leggenda (Arcana, 2010).

“Padre, padre/Non abbiamo bisogno di un’escalation/Vedi, la guerra non è la risposta/Perché solo l’amore può vincere l’odio/Sai che dobbiamo trovare un modo/Per portare qui un po’ di amore oggi”.
(Marvin Gaye, What’s Going On, 1971)

Un cartello sulla porta dello studio mette la parola fine a quel sogno: “Oggi nessuna registrazione. La Motown si trasferisce a Los Angeles”. È un colpo al cuore: siamo nel 1973 e all’improvviso la magia di quel “sound” svanisce come in una fiaba. Quelli che restano in città ricominciano a suonare nei club, mentre chi prova a seguire Gordy – senza amici, né famiglie – lascia il cuore di Detroit e ne paga le conseguenze. Don Was, celebre produttore trasferitosi a Los Angeles, ha un’autentica ammirazione per James Jamerson, il tormentato bassista dei Funk Brothers: “Rappresenta il massimo in fatto di creatività, sperimentazione e temerarietà. Devi essere assolutamente senza paura per suonare in quel modo”. Jamerson muore a 47 anni di cirrosi, dimenticato da tutti, nel 1983 a Los Angeles. Sempre là, un anno più tardi, finisce la vita di Marvin Gaye, ucciso da un colpo di pistola esploso dal padre, il predicatore Marvin Gaye Sr..

tratto da "Il suono di Detroit. Blues, catena di montaggio e high tech soul." di Vittorio Bongiorno - Mucchio Extra n.42 



14.1.15

IL SUONO DI DETROIT





su Mucchio Extra n.42 - inverno/primavera 2015

6.1.15

NO MORE STORIES


25.10.14

Don’t tell the river: Mick Turner live in Bologna



Freakout Club, 14.9.14

L’altra volta che Mike Turner era venuto con i Dirty Three a Bologna facevano tanto di quel casino che avevano letteralmente coperto una delle scosse di assestamento del terremoto. Ma stasera c’è la chitarra, pedalini colorati e batteria. Niente barbuto, niente violino, niente casino.
In verità non c’è proprio un cane quando arriviamo. Locale deserto, tanto che dopo mezzora chiedo al tipo all’ingresso: dice che i ragazzi sono andati a casa a farsi una doccia e arrivano. Il giovane Kafka seduto sulla panca accanto alla mia mi guarda sconsolato. Gli vorrei dire che ci sono passato anche io, la vita è uno schifo, menomale che c’è la musica di Mick Turner. C’è pure il microfono, stasera! Si sarà messo a cantare?
“Ho sognato che morivo. Volteggiavo sopra le dune verso l’oceano, era mattina e la nebbia sull’acqua era così fitta”: si chiama così il dipinto di copertina, realizzato da lui stesso, come per gli album del terzetto, per il suo nuovo lavoro solista “Don’t tell the river” (Drag City). Fatto tutto da solo, col altri amici, senza né il barbuto, senza nemmeno il batterista “polpo” Jim White, l’unico al mondo capace di suonare tutti i tamburi e piatti contemporaneamente con due sole bacchette (e le sedici mani).
“Ciao, io sono Mick, lui è Mike”, fa lui quando sale sul palco. Non sembrano due che si sono fatti la doccia, e questo è tutto quello che dice al microfono.
Parte il primo giro, messo in loop con un pedalino bordò, su cui registra una seconda chitarra, e poi una terza, e dopo pochi minuti dall’inizio, sono sordo. Ma felice. Investito da un muro di suono doloroso ma vivo. Kafka, accanto a me, è impassibile.
Dietro le pelli non c’è il “polpo”, ma un giovane batterista in tenuta da rockstar che picchia duro e si inventa dei bei passaggi che tengono testa ai loop dell’amico Mick.
Le canzoni non sono canzoni, sono grumi di note che si addensano alla velocità della luce, e che poi esplodono, inquieti. È una tela su cui Mick (con Mike) imprime tutti i colori possibili che ha a disposizione, ne unisce i filamenti creando nuovi impasti sonori, si sporca le mani fino ai gomiti, fino a che tutto non resto sullo sfondo, un magma indistinto, su cui schizza gli ultimi tocchi di luce, grappoli di note che rischiarano la notte.
Poi spegne la loop-station, ringrazia, e se ne va.
Poi torna, dice che fa un pezzo dei Dirty Three da solo, non si capisce quale, mentre il batterista impomatato si intorta la barista, il giovane Kafka soffre in silenzio e un giovane Hemingway finisce di rollare una canna preparata tutto il concerto e la accende, come se niente fosse, mentre sfilano le note di sottofondo di questa notte obliqua. La vita è uno schifo, e non c’è tempo da perdere in canzonette, e Mick lo sa, per questo suona tutto il suonabile, tutte le note possibili, come un Coltrane sonico australiano e allampanato e se ne va lasciando metà del pubblico senza fiato (l’altra metà è uscita a fumare a metà concerto e non è più tornata). Grazie Mick (e Mike). Torna presto.


© vittorio bongiorno

12.7.14

Il suono di Berlino








23.4.14

Can We Really Party Today, Jonathan?



Jonathan Wilson live a Bologna, 11 aprile 2014

C’è un tizio all’ingresso che mi dà un fogliettino con scritto “AVVISO: invitiamo il gentile pubblico presente in sala a non scattare foto o fare riprese video al fine di non disturbare la visuale delle persone sedute nelle file dietro. È altresì severamente vietato l’utilizzo del flash. Grazie per la collaborazione”.
Ci sono poltrone troppo comode per un concerto di rock psichedelico.
C’è un tipo accanto a me che allunga le gambe e si mette comodo e dice “Facciamoci questo bel trippone e poi a nanna”.
C’è un organo registrato che suona per dieci minuti in penombra, poi entrano loro cinque e attaccano l’inizio strumentale di “Fanfare”: piano e batteria suonati in punta di piedi dall’ottimo Jason Borger al piano, e dall’immenso Richard Gowen alla batteria. Sono tutti vestiti come l’ultima volta che li ho visti dal vivo, sei mesi fa, le stesse camicie a scacchi e gli stessi jeans, e sembra che siano qui per caso, passavano di qua e si sono fermati a suonare.
C’è un suono sospeso nell’aria, tra echi del Laurel Canyon, ballate cosmiche, “If I could only remember my name” e il fantasma di Dennis Wilson che stanno ancora cercando nel Pacific Ocean Blue.
C’è tutto “Fanfare”, splendido disco del 2013, riproposto quasi completamente, con qualche gemma recuperata dal precedente, lo stupendo “Gentle Spirit” del 2011.

“Oh, let me love you, is all that I can do, not to touch you”.

C’è anche l’altro chitarrista, Omar Velasco, che non sbaglia una nota, e il bassista Dan Horne, che suonano quasi a occhi chiusi, un suono caldo e pastoso, e non aprono bocca, non si muovono nemmeno, sembrano finti.
C’è il “Bello essere qui” di rito, e il “Grazi” in italiano.
L’unico che stasera sembra non esserci è lui, Jonathan Wilson, il più sexy menestrello psichedelico del pianeta, che somiglia sempre di più all’adesivo del vagabondo con la chitarra delle Vespe anni ’80: barba lunga, codino, tshirt e spolverino e scarpe di pezza da indiano. Dopo due ore esatte di concerto senza sangue sui polpastrelli finalmente alza a manetta il volume della Telecaster ’57 costruita da lui stesso e spara una dilatatissima “Valley of the silver moon”. Ma ormai è tardi. Anche se il pezzo è il trippone da dieci minuti che tutti aspettavamo, è ora di andare a nanna un po’ delusi. Come quando esci con la donna più sexy del pianeta, e quella non te la dà.

“I’m writing you from the valley of the silver moon.
I’m riding you now from the valley of the silver moon”

Addirittura c’è qualcuno che si alza e finisce sotto il palco per il bis, ma è troppo tardi, Jonathan, la prossima volta ci vediamo all’aperto, magari nel deserto, per un bel trippone tutti insieme. E poi a nanna.



© 2014 vittorio bongiorno

4.3.14

BILL CALLAHAN story

The only words I said today are "beer" and "thank you". (bill callahan)




Rock Bottom Riser - Bill Callahan live in Bologna, 18.2.2014




7.1.14

Il suono del deserto


Los Angeles, Gram Parsons e l'albero di Giosuè 
(pubblicato da Mucchio Extra n.40)


Odierete Los Angeles
Questa è una storia di musica e parole, e comincia dopo la mia nascita: 1973. Io ho poco più di sei mesi di vita quando Gram Parsons muore di overdose di morfina e alcol nella stanza numero 8 del Joshua Tree Inn. Personaggio chiave per capire l’evoluzione di buona parte del rock americano prodotto da quattro decenni a questa parte, Parsons ha 26 anni quando il suo cuore si ferma. Con la sua grazia, e la voce da angelo maledetto, ha sdoganato la musica country facendola uscire dai rigidi confini del genere, influenzando molti musicisti, uno su tutti il suo “gemello” Keith Richards.
         (continua) 


La poesia psichedelica di questo menestrello lascia senza parole, come la sua musica, che viene dal passato ed è suonata con strumenti d’epoca, ma è la più sexy che abbia sentito da molto tempo a questa parte. E Jonathan Wilson ride, quando glielo dico. “La musica sexy è buona musica, la musica che piace alle donne è ovviamente la musica migliore...”.
            (continua)
  


Polvere, asfalto, cemento, petrolio, carcasse di ferro arrugginite. Mangiamo tacos salatissimi e beviamo acqua da bidoncini da un gallone, ascoltiamo una radio satellitare che spara Johnny Cash, Elvis e Roy Orbison. Ogni luogo ha la sua musica, che vive di paesaggio, di motel da quattro soldi, di banconi di saloon, di strade perdute e viaggi senza meta. 
    (continua)


“Era sempre talmente fuori che cominciai a chiamarlo Gram Richards”, racconta Pamela Des Barres, la groupie numero uno di Los Angeles. Dopo l’incontro londinese, i due si rivedono a Los Angeles, quando Mick e Keith, con l’allora fidanzata Anita Pallenberg, arrivano per mixare Beggars Banquet con Jimmy Miller in consolle. Keith e Anita passano un sacco di tempo insieme a Gram, che li porta in gita nel suo posto preferito, il Joshua Tree National Park, a un paio d’ora dalla città. Sono strafatti di coca, mezzi nudi e suonano la chitarra in attesa degli Ufo.
                      (continua)

28.11.13

Reading "No Strangers Blues" (NYC, 30.9.2013)



Siamo a Nuova York, io e il mitico Ricky Russo, davanti al Bowery Electric, uno dei posti più fichi di downtown, prima del suo "In Orbita Party". Aspettiamo King, il cantante dei Tangiers Blues Band, che mi accompagnerà, alla fine del reading, in una cover di "Me and the Devil" di Robert Johnson. Io non ho paura. Mi sto cacando addosso. Stavolta sono solo, io, la mia cigar box guitar, e la Silvertone 1448 del 1963 che ho comprato stamattina a Brooklyn da un fotografo della madonna,  Matt Carr. Leggerò le prime pagine del nuovo romanzo, che sto ancora scrivendo, e che, al momento, ho chiamato "No Strangers Blues"...


il video è qui: http://youtu.be/GvyqxMNYx98


15.11.13

Dice che Einaudi compie 80 anni...





11 aprile 2011

Non quando l’ho finito di scrivere, né quando l’ho visto in libreria, no. Quando Rosella mi ha spedito la prima bozza del “Duka” da correggere, perché ero a casa con la gamba ingessata, e ho aperto quella busta di cartone spesso, con quello Struzzo grande. È stato in quel momento che mi sono emozionato, e ho capito che il premio più grande che potessi vincere era fare parte di questa storia che ha ottant’anni, ma che non finirà mai. Una storia importante.

16.10.13

ciao Luigi Bernardi...




erano mesi che ti dovevo chiamare e non l'ho fatto. grazie di aver buttato il mio manoscritto nella spazzatura. grazie di avermi insegnato a usare la matita grossa invece che il radiograph. grazie di avermi fatto diventare uno scrittore. ciao Maestro.
v.

8.10.13

24.9.13

Io non sono come te (reading)



http://youtu.be/50N2t3AVOuA


"io non sono come te" (reading)
vb: voce, cigar box guitar e loop station
asso stefana: chitarra, lap steel e coppola

Festival S-Legami, Rocca di Ravaldino, Forlì
(17.5.2013)

prodotto da http://www.matitegiovanotte.it/
diretto da Gianluca "Naphta" Camporesi
http://www.naphtalina.com/

il racconto ebook in download gratis qui: http://www.bookrepublic.it/book/9788865860885-io-non-sono-come-te/


11.5.13

Ho sognato Bob Dylan e Neil Young...




Ho sognato Bob Dylan. Bob mi chiedeva la mail, gliela scrivevo nel retro di un flayer del suo concerto ma non si scriveva, non riuscivo a scriverla, provavo a scrivere ma le lettere non si componevano. Poi mi giro e c'era anche Neil Young. Io dico nooo, Neil, anche tu qui... Poi è suonata la sveglia...

28.9.12

Dice che "Io non sono come te"...





Dice che "Io non sono come te" è il racconto che ho finito di scrivere nei giorni in cui, a dicembre dello scorso anno, ero stato invitato all’Italian Bookshop di Londra per la presentazione del mio romanzo “Il Duka in Sicilia”, di cui questo racconto è in qualche modo “figlio”.
Mi ero perso in una delle mie infinite passeggiate in una pungente mattina per ritrovarmi a Camden Town nello stesso luogo in cui, più di vent’anni prima, avevo comprato con mia sorella il primo “Chiodo”, i Doc Marten’s e i 45 giri dei Police. Del quartiere “maledetto” dei Clash e di “Whithnail & I” non c’era più traccia, e mi stavo nuovamente infilando le cuffiette dell’iPod quando mi sono imbattuto in un tizio che suonava un pianoforte mezzo distruttosul marciapiedi davanti a un negozio di memorabilia. Aveva qualcosa di strano eppure di familiare: benché fosse inverno non portava calzini, i pantaloni alle caviglie, un giubbotto di pelle leggero, ma soprattutto aveva un modo di suonare che io conoscevo molto bene. Era un pezzo strumentale, e batteva il tempo con il tacco del mocassino premendo i tasti come se li volesse aggredire. Il pianoforte non era uno strumento staccato da sé, il pianoforte era una parte di sé, che viveva con lui, suonava con lui, sbagliava con lui. Perché sì, a un certo punto si era impappinato, e anche quel gesto io lo conoscevo bene. Sembrava che stesse per morire, e che quella era l’ultima volta che avrebbe potuto suonare e gridare a squarciagola “I need your love”. Finita l’esibizione mi ero allontanato ed ero scoppiato a piangere. Avevo trovato Noah, il bambino protagonista del racconto che avevo appena spedito all’editore via email mezzora prima. è una cosa difficile da spiegare, che ha a che fare con la disperata solitudine della creazione di una storia e dei suoi personaggi, e la possibilità di toccare l’infinito con mano, e di sentirlo reale. Nessun premio letterario può arrivare a così tanto, a così in alto, e così intensamente. L’emozione era stata troppo forte, e per assurdo che possa sembrare, ho contattato via facebook Stephen Ridley, il pianista di Camden Town, solo una volta tornato in Italia.
A casa, a Bologna, quasi dieci anni prima, dopo l’ennesimo “cambio di vita”, mi ero trasferito a qualche portone di distanza da un negozio di bellissime scarpe artigianali disegnate da una stilista londinese che vedevo passare ogni tanto nascosta sotto grandi coloratissimi cappelli. In questi anni il sogno di Debbie Baker si è trasformato nel successo internazionale del brand Fiorentini+Baker, anche grazie, perché no, alle decine di scarpe che ho comprato io! L’invito di Debbie e di Marisa Bernardoni a portare il reading musicale del mio “Duka” nel loro negozio sotto casa è stato un piacere e un onore: anche le loro scarpe raccontano una storia, fatta di tradizione e di invenzione, esattamente lo stesso “conflitto” di cui si parla nel mio libro. E dopo Bologna, il “Duka” è arrivato anche da Fiorentini+Baker New York, grazie alla pazienza e all’entusiasmo di Cristina Guidetti.
Che fine ha fatto il pianista di Camden Town? Avevo raccontato a Debbie e Marisa la mia idea di organizzare un concerto a Bologna di Stephen, anche se  in fondo, a parte qualche video su YouTube, non sapevo nulla di lui, né della sua musica. L’idea era bella, ma Debbie era dovuta partire per Londra per lavoro, e ne avremmo riparlato al suo ritorno. Non mi aveva detto che, curiosa, sarebbe andata a sentire quel pazzo pianista che “trascinava il suo piano in giro per il mondo portando l’amore tra la gente”. E una mattina, come solo in certi film e certi libri accade, Marisa mi ha mandato un video di una turista asiatica che riprende Stephen in una delle sue strazianti performance: la turista, ignara di essere mossa dal caso, a un certo punto gira la telecamera e inquadra Debbie, che fuma una delle sue sigarette, sotto uno dei suoi stupendi cappelli.
Dice che Stephen ha suonato per Fiorentini+Baker a Bologna, nella piazza davanti al negozio, e a Londra, per strada a Notting Hill. E questo grazie a Josef, Daniel e Noah. Lo so, sono uno scrittore, e questa sembra una storia inventata. Ma, credetemi, non è così. È tutto vero. Anche stavolta ogni riferimento a persone e fatti è puramente casuale.
Dice che Stephen suonerà anche sabato 29 settembre a Parigi.






6.9.12

Dice che Bill Fay...



Dice che Bill Fay tutti pensavano che fosse morto, e invece era solo scomparso. Ma non ha mai smesso di comporre.
Dice che le sue ultime canzoni inedite risalgono a più di quarant’anni fa (due dischi per la gloriosa Decca registrati in studio in tre giorni tra il ’67 e il ’71), e che ora esce il nuovo, bellissimo capolavoro, “Life is people” per la misconosciuta Dead Oceans di Nevada City, Indiana.
Dice che il giovane produttore Joshua Henry, cresciuto con i due vinili di Fay ereditati dal padre, sia volato dall’America al nord di Londra a cercare il “fantasma” di Bill, che nel frattempo campava con lavoretti occasionali come giardiniere, raccoglitore di frutta, uomo delle pulizie e addetto al bancone del pesce dei magazzini Selfridges, ma dice che in tutti questi anni la sua musica era arrivata lo stesso al cuore della gente.
Jeff Tweedy dei Wilco ha spesso suonato dal vivo la sua “Be not sofearful”, i Current 93 di David Tibet “Time of the last persecution”, Nick Cave lo venera, e Jim O’Rourke lo descrive così: “for some this may be a return to celebrate, for others it may be the beginning, but Bill Fay has quel held his head high above the fray of chaos for years with the beauty of his music and the power of his spirit”.
Dice che il trentaduenne discografico abbia convinto il vecchio Bill a tornare in sala di incisione, riprendendo alcuni suoi demo inclusi nel doppio disco postumo “Still some light” a due condizioni: che a suonare con lui ci fossero i vecchi amici di sempre (Ray Russell, Alan Rushton e Daryl Runswick), e che la sua parte di proventi andasse a Medici Senza Frontiere. Dice che quando è entrato in studio, dopo una vita, si è sentito a casa: “I was walking into the unknown, but everything kind of fell into place”.
Anima urbana ma dal cuore verde, Fay racconta la solitudine e l’emarginazione, ma nell’iniziale “There Is A Valley” anche gli alberi, e il potere salvifico della redenzione con una poetica enigmatica degna del migliore Dylan: “Trees don’t speak, but they speak to each other of a people long ago”. E dice che è nella ballata rock “This world” che si compie il miracolo del duetto tra Bill e Jeff Tweedy, che canta una delle strofe più belle e, probabilmente, più vere:

This world’s got me on my knees
There was a time when I used to stand tall
Too many years in the factories
Scrubbing floors and walls

“Life is people” è un disco semplice, quieto, pacificato, ("Be at peace with yourself”), che mescola il blues dell’anima alla commovente ballata per piano, voce e cello “The Never Ending Happening”, il romanticismo mai stucchevole al rock filosofico.
Dice che le canzoni di Bill Fay non si possono spiegare. Se uno non le capisce da solo, è meglio fermarsi e aspettare. Prima o poi arrivano. Al cuore.
Dice che Bill Fay è il Josef Zimmerman di "Io non sono come te". Quello vero...

“You can’t buy and sell the clouds…”

“Bill Fay’s first album in 41 years is astonishing” – MOJO
“The humble master of English song” – UNCUT

5.5.12

Dice che il #dukatour...


Dice che il #dukatour è stato "inventato" da Marilena Barbera, giovane e intraprendente produttrice di vino siciliano, e dice che è una "degustazione di vino e di storie". Dice che Marilena racconterà quattro dei suoi meravigliosi vini prodotti a Menfi (AG) in modo sostenibile e nel rispetto del territorio di mare da cui provengono, e che io accompagnerò la degustazione con la lettura di alcune pagine tratte dal mio romanzo “Il Duka in Sicilia” (Einaudi Stile libero). Dice addirittura che, durante la lettura, suonerò le mie “cigar box guitar” (lo strumento rudimentale autocostruito seguendo gli insegnamenti dei bluesman del Delta del Mississipi), con le quali costruirò dei tappeti sonori a cui aggiungerò loop e beat strumentali. Dice che, nelle varie date, ci saranno anche ospiti speciali che suoneranno con me, come Cesare Malfatti (ex La Crus), Stephen Ridley, Simone Mattiolo e altri. Dice che il vino di Marilena è buonissimo…

http://www.cantinebarbera.net/it/component/content/article/262.html

24.2.12

Dice che New York...




Dice che New York è sempre New York, e dice che ho già nostalgia di tornare prima ancora di esserci andato. Dice che ci andiamo a marzo, io, matteo e il Duka... Bah. Cose di pazzi. Chi l'avrebbe detto mai. Da Palermo a New York, con una scatola di sigari...

20.12.11

Dice che "Io non sono come te"...






















Dice che "Io non sono come te" è il racconto di natale. Dice che è una storia musicale. Dice che si potrà leggere in download gratuito. Stay tuned...

http://vimeo.com/33656309

17.10.11

Dice che “Drive”…






















Dice che “Drive” è un film senza tempo. Dice che è il film con cui il regista danese Nicolas Winding Refn ha vinto la miglior regia al 64° Festival di Cannes, e che è tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore americano James Sallis.
Dice che il film, un noir claustrofobico ad alta velocità ma dai tempi dilatatissimi e dialoghi scarnificati, è un pugno allo stomaco, e sembra uscito dalla penna del miglior Jim Thompson.
Dice che la storia è una di quelle che, già dopo i primi minuti, fanno pensare la classica frase “che me ne frega a me di questa storia iperviolenta che finirà con una carneficina”, ma appena ci si abbandona alle inquadrature minimali, al ritmo dilatato, alle luci e alle ombre di criminali, borderline, pupe e puttane, si rimane senza fiato. Come a indossare un paio di stivali sfondati e smangiati dal tempo, che però riportano alla memoria ogni singolo rassicurante fottuto passo (falso?) fatto in passato. Come indossare una maglietta slabbrata, o un maglione bucato, che sa di tabacco e cenere e sesso.
Dice che Los Angeles è un corpo muto e perlopiù notturno, che gli attori si muovono dentro case e negozi e officine che non tradiscono i segni del contemporaneo, e anche i telefoni cellulari, che ogni tanto squillano come presagio di morte, funzionano in una bolla spazio temporale magistralmente orchestrata dal regista. Dice che complice di questa atmosfera da incubo a occhi aperti è la colonna sonora di Cliff Martinez, già collaboratore di Soderbergh in “Traffic” e “Solaris” (ma anche batterista con Captain Beefheart, Lydia Lunch e RHCP), che impasta abilmente basi acide anni ’80 e krautrock in un crescendo di tensione.
Dice che gli attori sono straordinari, a partire dal protagonista Ryan Gosling (che, come in ogni buon noir, è un personaggio senza nome), per arrivare al Ron Perlman del fondamentale “Sons of Anarchy” e all’immenso Bryan Cranston della definitiva serie tv “Breaking Bad”.

18.9.11

DIce che Tom Waits...

Dice che Tom Waits ha realizzato un video su youtube per lanciare il nuovo disco "Bad as me", prodotto insieme alla moglie Kathleen Brennan.
Dice che il video è una geniale presa in giro della paranoia delle case discografiche che soccombono di fronte alla potenza inarrestabile della rete, e dice che il finale è esilarante, con un buttafuori che perquisisce gli ascoltatiri che entrano in auto con Tom per ascoltare il disco nell'autoradio.
Dice che Tom Waits è un genio assoluto, e che l'ho sognato qualche notte fa che mi trattava malissimo e io mi sono svegliato e mi sono detto: "però, Tom Waits... me l'immaginavo diverso...".

17.6.11

Dice che "Il Duka in Sicilia"...






















Dice che “Il Duka in Sicilia” prima era un film, che tutti volevano fare, e che nessuno ha mai fatto. Dice che il soggetto iniziale, di dieci paginette, ha vinto il Premio Sacher 2003, ed è stato pubblicato, sotto forma di racconto, su Alias-il manifesto. Dice che il libro, pubblicato da Einaudi Stile libero, sarà in libreria il 5 luglio. E non se ne parla più…

23.4.11

Dice che Tim Hetherington e Chris Hondros...








Dice che Tim Hetherington e Chris Hondros, due fotoreporter di guerra, sono stati uccisi il 20 aprile nella città assediata di Misurata dal fuoco di una granata. Inglese il primo, americano il secondo, erano due straordinari fotografi, vincitori dei più importanti premi internazionali per aver raccontato, con le loro immagini, gli aspetti più intimi e nascosti delle guerre del mondo.
Dice che Hetherington è anche l’autore del documentario “Restrepo”, sulla guerra in Afganistan, candidato all’Oscar e vincitore del Grand Jury Prize 2010 al Sundance Film Festival, e che ha vinto nel 2007 il World Press Photo per la foto di un soldato americano esausto in un bunker afgano. Dice che la motivazione del premio fu: “Questa immagine narra del crollo di un uomo e allo stesso tempo di un’intera nazione”, punto di vista simile raccontato nell’altro commovente e spiazzante lavoro del 2008, “Sleeping soldiers”, in cui mostra i soldati americani mentre dormono.
E dice che Chris Hondros non era da meno: amante di Mahler e degli scacchi, nel 2004 è stato nominato finalista per il Pulitzer nella categoria Breaking News, nel 2006 ha vinto il premio Robert Capa, il più prestigioso riconoscimento di fotogiornalismo per il suo lavoro sulla guerra in Iraq, e nel 2007 l’American Photo Magazine lo ha nominato “Hero of Photography”.
Dice che poche ore prima di morire, Hetherington aveva incontrato la giornalista Tiziana Prezzo, e le aveva detto "Per favore, tieni a mente che non esiste un posto sicuro a Misurata", e che il suo ultimo tweet, recita: "Nella città assediata di Misurata. Bombardamenti indiscriminati delle forze di Gheddafi. Nessun segno della Nato".
Dice che avevano entrambi 41 anni, e che sono morti per fotografare la Storia.


http://www.chrishondros.com/

http://www.timhetherington.com



http://conorclinch.blogspot.com/2011/04/rip-tim-hetherington-chris-hondros.html