Dice che “Drive”…
Dice che “Drive” è un film senza tempo. Dice che è il film con cui il regista danese Nicolas Winding Refn ha vinto la miglior regia al 64° Festival di Cannes, e che è tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore americano James Sallis.
Dice che il film, un noir claustrofobico ad alta velocità ma dai tempi dilatatissimi e dialoghi scarnificati, è un pugno allo stomaco, e sembra uscito dalla penna del miglior Jim Thompson.
Dice che la storia è una di quelle che, già dopo i primi minuti, fanno pensare la classica frase “che me ne frega a me di questa storia iperviolenta che finirà con una carneficina”, ma appena ci si abbandona alle inquadrature minimali, al ritmo dilatato, alle luci e alle ombre di criminali, borderline, pupe e puttane, si rimane senza fiato. Come a indossare un paio di stivali sfondati e smangiati dal tempo, che però riportano alla memoria ogni singolo rassicurante fottuto passo (falso?) fatto in passato. Come indossare una maglietta slabbrata, o un maglione bucato, che sa di tabacco e cenere e sesso.
Dice che Los Angeles è un corpo muto e perlopiù notturno, che gli attori si muovono dentro case e negozi e officine che non tradiscono i segni del contemporaneo, e anche i telefoni cellulari, che ogni tanto squillano come presagio di morte, funzionano in una bolla spazio temporale magistralmente orchestrata dal regista. Dice che complice di questa atmosfera da incubo a occhi aperti è la colonna sonora di Cliff Martinez, già collaboratore di Soderbergh in “Traffic” e “Solaris” (ma anche batterista con Captain Beefheart, Lydia Lunch e RHCP), che impasta abilmente basi acide anni ’80 e krautrock in un crescendo di tensione.
Dice che gli attori sono straordinari, a partire dal protagonista Ryan Gosling (che, come in ogni buon noir, è un personaggio senza nome), per arrivare al Ron Perlman del fondamentale “Sons of Anarchy” e all’immenso Bryan Cranston della definitiva serie tv “Breaking Bad”.