il bravo figlio e londra - ultima parte
18.6.07
Oggi a Londra non piove, diluvia. Chiamo A per un drink e la segreteria telefonica mi mangia tutto il credito. Ho freddo, sono stanco, dove cavolo si ricaricano i telefoni qui? Cammino per due ore alla ricerca di un maledettissimo negozio Vodafone, lo trovo solo quando è troppo tardi: A sembra stupita di sentirmi, io balbetto, lei balbetta, sta partendo, io pure, ma in due direzioni diverse, con due aerei diversi, forse anche da due aeroporti diversi. Inciampo sulle parole, dico delle stronzate che nemmeno io so, ma anche A sembra presa alla sprovvista. «Mandami la tua email», mi dice alla fine strozzandosi con le parole. Sono un cretino, me lo merito, questa è la verità. Addio A. Mi infilo da Muji, nel sottosuolo (è quello il mio posto) per non morire. «See you later», le dico, giuro. Ma si può essere più idioti?
Con RA e happy family facciamo un giro veloce alla National Portrait Gallery. Io vorrei vedere i sei ritratti di Shakespeare, che sono però in America. Poi con A, il figlio di R, cerchiamo il ritratto di non so quale Conte fatto decapitare da Re Carlo, che non troviamo. A R è chiaro che non gliene frega niente del ritratto, ha fame, come biasimarlo? In una sala del contemporaneo c’è una serie di foto molto interessanti: “Blair at war”. In Italia non sarebbe possibile… Sorvoliamo le grandi stanze, attraversiamo secoli, conti, principi, regine, diretti al club di MG, black, dove lui ci aspetta per pranzo già sorridente sulla porta del locale di Soho, un vecchio pub/ristorante a vari piani, “pure old London”. Ordiniamo anatra, patate, birra, ed è tutto delizioso. Con A e suo figlio ci “sciarriàmo” il pane per intingerlo nelle squisite salsine inglesi, tanto che l’unica frase utile che pronunciamo è, ovviamente, “more bread please”. Arrivati al dolce R racconta di un suo reportage a NY, al campionato mondiale di mangiatori di cannoli, e del campione uscente che non può partecipare “per un principio di diabete”. Adoro quest’uomo, mi fa morire dal ridere! Poi ci racconta la storia vera della Cassata siciliana, ed è un piacere sentire come sceglie le parole, le inanella una dietro l’altra, e da un lato ti raccata una storia bella, dall’altro ti fa sentire una musica meravigliosa. Poi ci abbracciamo, e ci ripromettiamo di vederci a Palermo. R addirittura si lascia sfuggire un timido «vedi che da noi ci dovrebbe essere un letto in più», frase che trovo delicatissima e affettuosissima insieme.
A cena, altro bagno di emozione, a casa di O. Ci sono tanti amici della sera della presentazione, CCG ha preparato deliziose insalate da accompagnare con squisiti patè (che lei chiama “organic”) di uova di pesce e verdure. E beviamo champagne, of course. Alla faccia di chi mi vuole male. O ci fa, a me e MG, una foto ricordo accanto alla finestra. Io ho la barba lunga di giorni, M mi abbraccia con energia.
19.6.07
Passo l’ultimo giorno a casa di CCG, M ci raggiunge da Bafta, il cinema e centro culturale di Piccadilly, per l’ultimo “pure english lunch”. Un cameriere di origini arabe ci snobba un po’ e C lo fulmina con lo sguardo. Io ho un gran maldigola, ho dormito male e forse ho qualche linea di febbre. In una tiepida mattina C, zia C, mi ha raccontato anche lei un pezzo della sua vita, e io ho ricambiato, mentre lei mi ha preparato la colazione più buona che abbia mai mangiato. Spero di non averla annoiata. Prima di partire mi regala il dvd di “The Proposition”, il western australiano scritto e musicato da Nick Cave, un foulard di seta nera e una confezione di salsicciotti inglesi per mio figlio, che mi avvolge in un sacchetto con una vaschetta di ghiaccio per picnic. «Scusa, forse sono una mamma rompicoglioni come con i miei figli», mi dice quando, sulle scale mobili della metro mi mette a posto l’orlo dei jeans impigliati nello stivale. «Non ti preoccupare, non sei una rompicoglioni, e poi io non sono tuo figlio». Ci abbracciamo come se ci conoscessimo da sempre. Anche lei. In bus per Stanstead crollo a dormire immediatamente, la gola in fiamme.
«Io domani mattina vengo a lavorare. Perché non sono come certa gente. Ma appena mi rompo i maròni me ne vado a casa», dice al telefono con l’Italia un grassone romagnolo tutto sudato in coda all’imbarco. Vorrebbe far credere di essere un top manager, o qualcosa del genere, ma molto più probabilmente sarà solo uno dei tanti schiavi impiegati. Io, mi dico tra me e me, per non rompermi i coglioni domani non ci vado proprio a lavorare. Punto. L’aereo è in ritardo, non c’è aria condizionata e io sono sfinito. I due tipi accanto a me non sanno allacciare la cintura di sicurezza. La biondina graziosissima che era in coda dietro di me è seduta accanto, dall’altra parte del corridoio, col suo fidanzato belloccio. C’è una madre, in vacanza con la figlia, entrambe molto alte, lunghi capelli corvini, jeans e All Star (ovviamente), ma io preferisco la madre. «Come mai non partiamo?», mi chiede la fidanzata bionda. Si è accorta di me, finalmente. Dico una delle mie stronzate. Un po’ li invidio, devono essere molto innamorati, perché lei chiede un bicchiere d’acqua alla hostess, e quella fa storie, perché è una stronza e perché non siamo ancora partiti (vecchia storia…). Ma poi rimaniamo sulla pista per quasi un’ora ad aspettare il nostro turno, e alla fine l’acqua la hostess glielo porta, e loro cosa fanno? Insieme, vergognandosi come ladri, si passano la boccetta del Lexotan, morti dalla paura. Io rido, gli voglio tanto bene, cari ragazzi. Io non ne ho più bisogno. O almeno credo. Spero. Quando l’aereo decolla, in una nebbia che si taglia a fette, uno spiffero ci investe, e veniamo sballottati nell’aria. Una stronza urla, io metto via il libro di GDC che sto finendo, e guardo verso la fidanzatina bionda. Che non mi guarda, perché è aggrappata al fidanzato, le mani serrate in una stretta d’amore eterno. E un po’ dolciastro. Meravigliosamente dolciastro. Ah quanto li invidio…